“Praforte scomparirà. La roccia scende a valle”
Pietro Bortoluzzi nel docufilm “Dietro la cortina. Praforte un arcipelago di memorie” usa le stesse parole riferite sessant’anni prima al giornalista, narrando il destino del suo paese. Sembra una storia come tante già raccontate: un borgo svuotato prima dal destino obbligato dell’emigrazione che poi sembra intrecciarsi con la particolare geologia di questi borghi abitati: Cornei, Rizzòs, Almadis, Ghet, Costa, Romagnoli, Mostacins – questo elenco potrebbe continuare a lungo – perché l’intero territorio comunale di Castelnovo, con la sua superficie di 22,59 Kmq, caratterizzato da un tessuto abitativo fatto di case sparse e borgate, trova un centro soltanto a Paludea.

L’articolo racconta che già nel 1956 i geologi avevano definendo “inarrestabile” il movimento che avrebbe trascinato a valle le case. Oggi, Pietro ci racconta che lui geologi non li ha mai visti ma che ad un certo punto la gente è stata costretta a lasciare il paese per obbedire ad una ordinanza della Regione che intimava lo sgombero e disponeva la costruzione di un nuovo Praforte, e da la colpa ai militari, perché dice “noi gli davamo fastidio”.

Il paese si raggiunge per una strada che si arrampica sul monte Cjaulec (m. 1.148) caratterizzato da rocce calcaree permeabili che presentano i fenomeni carsici delle doline e degli inghiottitoi: questo luogo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale era diventato un poligono militare molto importante per armi leggere e pesanti. Dal greto del Tagliamento, dal poligono di Bando si sparavano i proiettili che passando sopra l’osservatorio Tigre posto sulla sommità del monte Cjaurlec, colpivano i bersagli posti sul campo di tiro.

Il poligono non si caratterizzava per la presenza di strutture, se si eccettuano le garitte poste sulla strada, l’osservatorio, le piazzole per le tende, le stazioni radio che trasmettevano le coordinate di tiro e una cisterna per l’acqua, ma diventò man mano per le specialità dell’esercito dell’interno Nord-Est, un luogo strategico. Questa zona rappresentava la terza linea di difesa cosiddetta “in campo aperto” perché avrebbe permesso sui greti del Cellina-Meduna le manovre dei mezzi corazzati, mentre la prima era quella immediatamente a ridosso del confine orientale, che veniva definita come difesa “duttile e porosa” e seguiva le linee della Prima Guerra mondiale, la seconda era quella che si attestava lungo il Tagliamento. Il Friuli Venezia Giulia divenne con i suoi 102 Kmq occupati da strutture militari, la seconda regione italiana più militarizzata. Alla presenza di strutture bisognava anche mettere in conto le continue e quotidiane manovre militari che non avevano solo scopi addestrativi ma anche un’azione di propaganda (i quotidiani locali ne davano puntale notizia) e anche di guerra psicologica e di controllo del territorio. Questo sistema di difesa italiano partecipava e si integrava nelle più ampie strategie NATO che avevano previsto la costruzione di bunker, gallerie e fornelli lungo la linea di confine, atti a contenere le W-54, le mine atomiche. Ma non solo, perchè erano parte di questo meccanismo di difesa anche le batterie di missili Nike (Aquileia, Campoformido e Fossalta di Portogruaro) che in caso di attacco da parte di forze del Patto di Varsavia, venivano armate dall’esercito americano con le testate nucleari custodite a Longarone.

Naturalmente tutto questo dispositivo di difesa aveva poi delle ripercussioni sulle comunità locali che ad un tempo venivano limitate nelle loro pratiche di uso del territorio ma avevamo anche subito compreso che potevano trarre beneficio dalle servitù d’uso di campi e pascoli occupati. La storia di Praforte rientra, almeno inizialmente in questa sorta di strategie di mediazione tra lo Stato occupante e le necessità di garantire un reddito ad una attività agricola che ormai era già fortemente ridotta. Capitava così che molti a Praforte approfittando delle manovre sul poligono raggiungessero il posto di guardia con le loro vacche per vedersi intimare l’alt e il divieto di proseguire verso i pascoli del Turiè o sul Cjaulec, ma contestualmente si vedevano riconosciuta la giornata di lavoro persa. Molto probabilmente il poligono è diventato sempre più strategico per l’esercito italiano, tant’è che i militari decisero di allargare la strada che conduceva al paese e poi più su alle aree di manovra, fino a che le esercitazioni interessarono non più solamente alcuni periodi ma l’interno anno. C’è chi si ricorda anche una visita del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, accompagnato a bordo di una Jeep militare.

Le operazioni di tiro preoccupavano la popolazione dei piccoli abitati, ne rimangono testimonianza le interrogazioni parlamentari e gli articoli sui giornali che parlano di frequenti incendi, boati, manufatti fatti saltare in aria, proiettivi inesplosi rinvenuti dai contadini. Da questo momento la vicenda di Praforte rientra a pieno titolo, seppur lontano dal confine nelle logiche della Guerra Fredda. Il Comune emana un provvedimento di sgombero e di non abitabilità facendo leva sulle perizie geologiche che parlano di un potenziale forte pericolo per le persone a causa della morfologia del luogo e che di lì a poco bisognerà abbandonare completamente l’abitato. Un finanziamento della Regione, appena costituita garantisce la costruzione di un nuovo paese in piano a Paludea, alcuni accettano questa proposta, altri cercano casa a Travesio. L’unico ad avversare strenuamente questa decisione, fino all’ultimo è Pietro Bortoluzzi, padre di sei figli che arriva perfino a barricarsi in camera imbracciando il suo fucile da caccia (ma non carico), verrà poi caricato a forza, assieme alle sue cose su un camion militare. La storia di Praforte continuerà per anni seguendo la logica emotiva del doppio paese: da Travesio o da Paludo, si risaliva per fare il vino, per coltivare l’orto, per raccogliere la frutta e per la manutenzione delle case e contemporaneamente della memoria del paese. Pietro è rimasto l’ultimo resistente, più volte al giorno percorre la strada, il paese è diventato lui, accorpando alle sue proprietà quelle di altri che ormai non vi fanno più ritorno; anche i militari se ne sono andati e con loro da qualche anno è caduto il divieto di abitabilità. Sembra uno scherzo beffardo ora che non ci sono quasi più le case, anche se il figlio di Pietro dedica i fine settimana a riattare la vecchia casa di famiglia.

Si può incontrare Pietro con facilità salendo al paese a qualsiasi ora e se si riesce a non farsi intimorire dal suo sguardo, diventa un fiume di parole, vi aprirà la latteria che è diventato una sorta di museo del ieri, con appese ai muri fotografie, articoli di giornale e oggetti. Poi vi accompagnerà tra le case attraverso sentieri che non sono più segnati fino alla Chiesetta di S. Vincenzo e da lì fino al cimitero, anch’esso fermo con le sepolture ai primi anni sessanta. Pietro non smette ancora farsi domande, arrabbiandosi contro la perizia dei geologi e i militari, e dice “di questa roccia che doveva scendere a valle, ma poi così non è successo, e che ha resistito perfino al terremoto del 1976, che ha colpito, danneggiandole molte borgate del comune, perché ci hanno costretto a lasciare i paese?”. E continua: “la verità è che noi davamo fastidio ai militari!”.
Guarda qui il documentario di Stefano Morandini e Alessandro Monsutti
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